Editoriale di don Andrea
A volte siamo molto duri con noi stessi. Pretendiamo troppo, non tolleriamo i piccoli acciacchi quotidiani che il nostro corpo, talvolta, ci impone di vivere.
Vorremmo sempre stare bene, essere prestanti ed efficienti; desideriamo poter realizzare tutto ciò che abbiamo in mente e, quando non ci riusciamo, ci sentiamo frustrati, inutili, sbagliati. Guardiamo con fastidio all'impossibilità di realizzare ciò che la nostra coscienza ritiene giusto. Di fronte a queste limitazioni, siamo più propensi a essere indulgenti quando queste limitazioni dipendono dagli altri, ma molto più severi quando dipendono da noi stessi.
A volte falliamo perché non siamo in forma fisicamente; altre volte perché siamo stanchi; e, il più delle volte, per via di imprevisti, dimenticanze o semplicemente per l'incapacità di fare ciò che vorremmo. Alcuni vivono questa condizione con rabbia e trovano forza proprio in quella rabbia: diventano nervosi e aggressivi, combattono contro nemici inesistenti, ma non vogliono ammettere che il loro nemico peggiore sono loro stessi. Altri, invece, si sentono sconfitti in partenza, vedendo ogni ostacolo come una montagna insormontabile. Le delusioni della vita li hanno portati a rinunciare a tutto, facendoli dubitare profondamente di sé stessi e degli altri. Non trovano più energia, né cercano di farlo, convinti che sia ormai inutile.
Poi arriva il Natale. Mi commuove sempre immaginare l’umiltà di un Dio onnipotente che si fa bambino: piccolo, infreddolito, incapace di parlare o muoversi, fragile e costantemente in pericolo per colpa degli uomini che non lo accolgono. Un Dio fragile è lo scandalo più grande che si possa immaginare. Dal legno della mangiatoia al legno della croce, il passo è breve ma fa molto riflettere.
Siamo abituati a immaginare Dio come un essere perfetto, forte, infinito, che non ha bisogno di nulla e di nessuno. Un Dio che, se volesse, potrebbe esaudire ogni nostro desiderio, eliminare ogni fastidio. Lo immaginiamo come desideriamo noi stessi: senza limiti, senza dolori fisici o morali. Eppure, ce lo ritroviamo in una stalla, piccolo e inerme.
Ci sono persone che non credono in Dio perché pensano che Dio sia cattivo, incapace di impedire guerre e sofferenze. Ma che immagine di Dio hanno in mente? Allo stesso modo, ci sono persone che vivono nella disperazione, sempre arrabbiate o sempre depresse. Ma che idea di sé stessi coltivano?
Cari fratelli, cari amici, cari parrocchiani, guardiamo con stupore il bambino di Betlemme! Ammiriamo la bellezza della sua fragilità. È una fragilità divina che ci svela il volto di un Dio sofferente ma profondamente amorevole. La sua onnipotenza risiede proprio nella scelta di abbracciare la nostra e sua fragilità e la nostra e sua tenerezza.
Questa visione può aiutarci a guardare noi stessi e il mondo con maggiore serenità, con meno giudizio e più misericordia. Siamo fatti a immagine di Dio, non nella perfezione, ma nella tenerezza! La tenerezza dell’amore!
Con affetto,